Verso una nuova cultura del welfare

 

L'attuazione della strategia di comunicazione qui  proposta permetterebbe l’allontanamento da una cultura assistenzialista e favorirebbe la crescita di un nuovo modello di welfare community.

 

La società civile, non chiede più allo Stato di funzionare da paracadute generale e  di estendere l’ombrello di garanzia in tutti i settori dell’assistenza. Essa invece chiede allo Stato di lasciare liberi settori di sviluppo per la nascita di varie forme non statali di solidarietà. Una coscienza sociale più matura, sviluppatasi anche  grazie ai servizi e l’assistenza offerti dallo Stato, chiede allo Stato di essere meno gestore e più comunicatore, meno “giocatore” e più “arbitro”. L’immagine del “welfare State è stata screditata da cattiva gestione ma ancor più dalla rigidità mentale che sempre sopraggiunge alle burocratizzazioni dei servizi al cittadino. Il futuro del welfare quindi, come è stato brillantemente definito, non risiede più nell’immagine del welfare State, ma nella prospettiva di una welfare community, cioè di un sistema dove le energie economiche, culturali e sociali si integrano in un contesto che lascia il protagonismo alle iniziative e alle proposte dei cittadini.

 

Questo non significa che lo Stato debba arretrare dall’assunzione di responsabilità nel welfare, ma che lo faccia in modo sussidiario e complementare alle iniziative della base, occupandosi in modo particolare di quei settori dove l’iniziativa privata non è in grado di entrare. Questi scenari affidano alle istituzioni ed ai responsabili di governo un ruolo di supporto e di garanzia di regole minimali dello sviluppo e del vivere sociale che non solo non ostacolino la crescita della società civile, ma che la accelerino e ne favoriscano la piena espressione.

 

In questa prospettiva allora la nuova “welfare community” viene costruita sulla nuova comunicazione Stato – società civile. Una comunicazione che è partecipazione alla programmazione. E questo non solo tramite le elezioni, ma tramite le dinamica di vita ordinaria. In questo modo si  valorizzano le risorse e la creatività del privato sociale e allo stesso tempo si compiono investimenti in quei settori dove solo lo Stato può fornire le risorse e l’autorevolezza necessarie. I settori di “miglior competenza statale” nei Servizi sono certamente due:

·         la normativa e lo stabilimento di standard e di criteri di riferimento;

·         le varie forme di attività connesse con l’educazione e l’informazione.

Uno Stato che sappia comunicare cercherà di intervenire lì dove la sua competenza è più qualificata.

 

Man mano che si passa da una visione statalista dell’assistenza ad una visione di sussidiarietà pubblico-privato (profit o non profit), cambia anche il tipo di richiesta che viene fatta alla “pianificazione”. Alla pianificazione centrale dello Stato, infatti, si chiede sempre meno di definire criteri operativi e norme d’azione, definibili meglio su scala regionale o locale; si chiede invece sempre di più di indicare obiettivi e sensibilizzare la coscienza dei vari soggetti verso la corresponsabilizzazione per il raggiungimento di tali obiettivi. Quindi, man mano che lo Stato si fa meno impositivo e aumenta il decentramento della sua amministrazione, l’attività di pianificazione assume sempre di più i connotati di un’attività di “animazione”.

 

Sarebbe quindi paradossale che proprio quando  la società civile chiede allo Stato di essere più comunicatore e meno gestore, lo Stato investisse nell’informazione per utilizzarla non per rispondere a questa esigenza ma per cercare di fare pubblicità ai servizi che gestisce e per fare opera di marketing per estendere l’ambito di tali servizi. Se invece si deciderà di rispondere a questa nuova esigenza sociale, lo Stato potrà impostare un rapporto di sussidiarietà con la società civile. E mentre provvede a valutare l’operato proprio e ad educare i propri operatori, riuscirà anche a far crescere la consapevolezza dell’importanza dei principi di equità e solidarietà. Questi principi non funzionano se sono solo i riferimenti ideali del servizio pubblico: occorre che siano anche i principi ispiratori di una nuova forma di sussidiarietà dello Stato con la società civile. In questo modo quegli stessi principi vengono diffusi in un ambito molto più vasto, facendo maturare la coscienza civile e  promuovendo quella simbiosi tra coscienza civile e gestione dei servizi che sta alla base del progresso di entrambi.

 

 


La solidarietà come risorsa per realizzare la sussidiarietà.

 

Spesso si crede che la solidarietà sociale possa essere un obiettivo da raggiungere con una programmazione sociale. Ma  la solidarietà è sempre una realtà insita del vivere sociale. Dove c’è società, c’è solidarietà – un destino comune – nel bene e nel male. Non sempre però c’è nella società il “senso della solidarietà”. Questo si realizza quando tra i membri del corpo sociale prende forma una comunicazione capace di utilizzare le diversità per realizzare la sussidiarietà. L’obiettivo vero quindi non può essere “realizzare la solidarietà”, che c’è già: l’obiettivo vero è quello di “costruire la sussidiarietà”, per dare un volto positivo alla solidarietà.

 

Per questo occorre che i servizi a cui è attribuita la responsabilità di dare alla solidarietà una dimensione positiva, sappiano comunicare all’intero corpo sociale la cultura che incarnano con la loro azione.  Qui si è proposta una strategia e un metodo in tale direzione. Ma soprattutto abbiamo voluto chiarire che la sfida è aperta e che è urgente affrontarla ponendosi su un piano coerente con i principi che si vogliono difendere.